
Però non è un masochista, infatti domani si ritira, sarà la sua ultima volta da perdente, il match numero 300, contro un welter, quasi debuttante, Matin Mohammed, con cui ha pareggiato venti giorni fa, nel risultato più eccitante delle sue ultime cinque stagioni. Non vuole essere una maglia nera anche nella vita. "Prendere pugni non è entusiasmante. Ho una figlia e una bella casa, voglio godere un po'". Chissà se ci riuscirà. Non è il primo ad aver costruito la sua fama sulla capacità di perdere. E di riperdere. Anche Chuck Wepner, a cui Sylvester Stallone si è ispirato per il personaggio di Rocky, è stato un vero pugile, ha preso un sacco di cazzotti e ha avuto una carriera poco invidiabile.
Sulla sua faccia tutti hanno fatto tutto. Non serve prova: 300 punti di sutura bastano e avanzano. Coma basta il soprannome: "Il sanguinante di Bayonne". Wepner fu l'ultimo a combattere nel 1970 contro Sonny Liston. E a straperdere: 120 punti sul viso, un martirio, un rattoppo continuo. A lui si deve una delle migliori battute sulla boxe. Quando infatti chiesero a Liston se Wepner fosse stato l'avversario più coraggioso mai incontrato lui rispose: "No, lo è il suo manager".
Ma almeno il vero Rocky, sconfitto da Ali per ko tecnico all'ultima ripresa, si è preso l'unica soddisfazione della sua carriera, quella di mandarlo al tappeto al nono round. Anche se Ali dichiarò di essere scivolato. C'è una foto che ritrae proprio quel momento: Ali che cade all'indietro e Wepner, con la faccia e la ciccia sudata e l'aria di chi non crede ai miracoli, che lo guarda dubbioso: oddio, mica lo avrò mandato al tappeto? Buckley che non hai combattuto per un titolo importante sogna l'impossibile davanti alla folla di casa. Lasciare non a testa bassa, ma a braccia alzate, sarebbe la sua 32esima vittoria dopo 256 sconfitte. Il segno che andare indietro stanca e che almeno per una volta, per la mitica ultima volta, è bello ripartire con la sensazione di non essere quello che resta con i lividi. Anche se non si illude: "La boxe mi ha salvato dal finire in prigione, mio padre è morto che avevo 15 anni, ero un delinquente da strada. La palestra è stata la mia casa, ero sempre lì ad allenarmi e a disposizione, ho accettato chiamate anche all'ultimo momento, anche alle otto di sera. Se c'era un buco da tappare nelle riunioni arrivavo io, pronto a sostituire ogni avversario, mai detto no a nessuno, spesso sono salito sul ring con gli occhi ancora neri per la sconfitta precedente. Non do la colpa a nessuno, mi sono sempre gestito la carriera. E' che ad un certo punto è stato più conveniente perdere, anche se da professionista della sconfitta non mi sono mai buttato via". In America, paese che non vive bene il mito del perdente, una commissione ha proposto la perdita della licenza pugilistica alla decima sconfitta consecutiva dell'atleta, ma in Inghilterra l'unico criterio è l'idoneità medica.
Purtroppo il suo non è un record: 31 successi, 256 sconfitte,12 pareggi sono un inferno sportivo, ma non bastano per finire nel Guinness dei primati che appartiene all'americano Reggie Strickland con 363 matches e 276 incontri persi. Strickland, che ha 5 figli e viene da una famiglia di pugili, tutti asini come lui, chiede subito (prima di combattere) i soldi, si accontenta anche di 100 dollari, al massimo una volta ne ha guadagnati 3.500, molto meglio del suo salario da cuoco. Viaggia su un camioncino, e prende seriamente la sua carriera da loser. Non si lamenta che alcuni stati, Ohio, Illinois, New Jersey e Pennsylvania e Nevada, l'abbiano bandito con la motivazione: "Uno che campa sulla sconfitta non è morale". Lui si difende: "So come non farmi male. E poi come farebbero i vincenti senza i perdenti?". Già, andatelo a dire a Raymond Poulidor, 14 Tour senza una maglia gialla, che nel '73 la perse per 80 centesimi di secondo nel prologo di Scheveningen, per colpa o merito di Zoetemelk. E che come ricorda Gianni Mura sulla sfortuna scoprì la sua filosofia che spiegò così: "Più ero perseguitato dalla iella, più ero popolare, più facevo soldi. Un giorno mi sono chiesto seriamente: a cosa serve vincere, se perdendo sono più amato e famoso di quelli che mi hanno battuto?". Domanda che non si pose mai il re della maglia nera, Luigi Malabrocca, detto Luisìn, sempre ultimo, ultimissimo, perché così riusciva a guadagnare due lire e a battere la miseria. Al Giro d'Italia andava in fuga dietro al gruppo, entrava nei bar e non ne usciva più. Ultimo nel '46 a 4h. 9'34'' da Gino Bartali: un'impresa. Ultimo nel '47 a 5h.52'20'' da Fausto Coppi: un capolavoro. Un uomo solo in coda, Malabrocca. Fino a quando non arrivò un altro campione nella lotta al fuori tempo massimo, Sante Carollo, che nel '49 lo fregò con la complicità dei cronometristi, che spazientiti, non aspettarono Luisìn al traguardo e gli attribuirono lo stesso distacco del gruppo. Così Carollo gli soffiò la maglia nera e Malabrocca dalla delusione lasciò il ciclismo. Chi vince non sa mai quello che si perde.
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